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archivio pensieri e parole 3

19-01-2018 Le babygang di Napoli. Proviaqmo a ragionare insieme
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Cosa sta succedendo a Napoli? È lecito chiederselo o parlando di baby gang rischiamo di cadere vittime di una distorsione giornalistica?

Azzarderò una risposta, che ci porterà un po’ lontano dalle stazioni della metro, battute dai delinquenti in erba.
Il tema della violenza giovanile - frutto innanzitutto di un’assoluta strafottenza nei confronti del principio di autorità - c’è ed è allarmante. Non credo, però, possa essere analizzato, prescindendo da ciò che è Napoli e dalla narrazione che si è fatta della "capitale del Mezzogiorno". Non si contano più le "rinascite", "rivoluzioni", "primavere" annunciate per la città. Dall’ormai lontana era Bassolino – prima metà degli anni ’90 – ad oggi, quasi nessuno è riuscito a sottrarsi all’immagine della Napoli che rinasce, torna, sorprende e ammalia. Di cosa si stia parlando, è presto detto: una fortissima ripresa turistica, un interessante e rigoglioso fenomeno di micro-imprenditorialità, alimentato (finalmente!) dalla storia e dalla bellezza. Oltre a questo?

Il tessuto sociale e produttivo, se non "baciato" dal boom turistico, è rimasto spesso uguale a se stesso, sospeso fra gli estremi dell’immobilismo e di poderosi, ma isolati slanci di modernità e coraggio. Il problema è che a camminare sul filo ci vuol poco a cadere. O lasciarsi attrarre dal vuoto. Per quella parte di Napoli (e del suo complesso, popolosissimo, ventre periferico) fuori dai luccichii del "lungomare liberato", lontana anni luce dai percorsi turistici, sentir parlare di "rinascita" equivale più o meno a un sermone in esperanto.

La consapevolezza è che Napoli ha fatto finta, per anni, di non vedere una parte di sé staccarsi, restare indietro. Senza possibilità di recupero. Vomero, Chiaia, Posillipo, persino e in qualche misura i famigerati Quartieri Spagnoli di un tempo, zeppi di B&B e ristoranti, è una vita che guardano con malcelato disprezzo "l'altra Napoli"

 

Se si vuole provare a capire come nasce una baby gang, non si può dimenticare che UNA Napoli non è mai esistita. Da sempre, la stratificazione sociale partenopea è plastica, quasi fisica. Che nella città del ‘600 e ‘700 i "signori" e il "popolino" vivessero non di rado negli stessi, splendidi palazzi di Spaccanapoli, non deve far dimenticare come solo questa città avesse ancora un’entità riconoscibile come "plebe". Forse, dobbiamo avere il coraggio di dircelo, ce l'ha ancora.

Senza una condizione di bancarotta sociale e familiare assoluta, un fenomeno come quello della baby gang alla partenopea semplicemente non potrebbe esistere. Capisco che sia più affascinante e di moda sostenere che questi ragazzotti siano mossi da uno spirito emulativo degli anti-eroi di Gomorra. Sarà pur vero nel linguaggio, nelle movenze, nello scimmiottare i boss e la "paranza" - un gruppo aveva una sola pistola giocattolo e se la passava a turno nei "colpi" - ma da dove arriva, come nasce, l’istinto primordiale del branco predatore, se non da una famiglia, un ambiente, una scuola ridotti a nulla? Sia chiaro: non è una giustificazione. Piuttosto un’aggravante.

La consapevolezza è che Napoli ha fatto finta, per anni, di non vedere una parte di sé staccarsi, restare indietro. Senza possibilità di recupero. Vomero, Chiaia, Posillipo, persino e in qualche misura i famigerati Quartieri Spagnoli di un tempo, zeppi di B&B e ristoranti, è una vita che guardano con malcelato disprezzo "l'altra Napoli". E questa, i suoi figli più reietti o semplicemente più ingenui e irresponsabili, rispondono rubando cellulari, menando, minacciando persino i militari. Sputano in faccia, non tanto allo Stato, che in definitiva manco conoscono, ma "agli altri".

Senza giri di parole, il mondo di molti di questi ragazzi non ha nulla in comune con il nostro, se non dei pezzi di esteriorità: lo smartphone, il linguaggio mutuato da una serie Tv, il look da gang di latinos. Molti dei loro genitori hanno fallito e se ne fregano. Ma non sono gli unici.

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15-01-2018 Il calcio, il Napoli, i sogni...
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Settimana strana (per quelli come me), settimana senza pallone. Ad aspettare la ripresa, distratti dal mercato e imbarazzati dalle notizie in arrivo dalla Federcalcio, dove tutto sembra destinato a ripetersi. Come se nulla fosse accaduto, come se Italia-Svezia non si fosse mai giocata e Ventura fosse ancora l'onesto allenatore di oneste squadre di metà classifica.

Accennavamo al mercato: fiera delle sirene e sciocchezzario buono per quasi tutte le stagioni. Sono le settimane in cui, dopo il relativo letargo autunnale, tornano a imperversare i procuratori.

Inseguiti, blanditi, venerati da legioni di cronisti, ormai spesso credono di essere loro i protagonisti della giostra. Mica i calciatori, perlopiù utili a questo Monopoli del terzo millennio, dove capita che onesti ragazzotti, come il brasilero Coutinho, finiscano per essere pagati come un pezzo di manovra economica. Una volta, guardando al calcio, si parlava di ricchi scemi. Oggi, i ricchi sono ricchissimi e gli scemi rischiano di essere quelli che credono si possa vincere programmando e non lasciando far tutto al super-procuratore di turno. 

Eppure (forse siamo scemi sul serio), alcuni di noi ci credono ancora: si emozionano pochissimo a inseguire ex-pizzaiuoli d'assalto o leccatissime parodie di yuppies anni '90, preferendo il calcio dei sogni. Di questi ultimi, quale può essere più grande e apparentemente illogico, che uno scudetto al Napoli? Buonissima squadra, per carità, allenatore molto apprezzato (oltre che bravissimo), società sana. Tutto vero, ma anche poca roba, rispetto alle multinazionali, che vanno per la maggiore oggi. Non è solo un problema di fatturati, tanto cari a Sarri, ma di strutture, dimensioni della proprietà, agganci, politica sportiva. Da questo punto vista, un titolo azzurro avrebbe del semi-miracoloso. Eppure, se parliamo di calcio, risponderebbe a pura logica. La squadra è 'corta', ma perfetta, per quello che vuole fare l'allenatore. Superstar non ce ne sono, se non nate in casa o sbocciate ai limiti dell'anzianità pallonara, rispettivamente nei casi di Insigne e Mertens. I giocatori sono da anni più o meno gli stessi e la formazione la si può recitare a memoria. Puro anacronismo, questo. Gli stipendi di allenatore e rosa sono alti, ma fanno il solletico a un Liverpool qualsiasi. Non parliamo neppure della Juventus o dei colossi europei. Insomma, il Napoli sarebbe un mezzo imbucato alle feste dei grandi, se non fosse esattamente ciò che vuole essere: una squadra per vincere lo scudetto. Seguendo un'idea di calcio, basata sulla qualità, il possesso e l'attacco. Diventando, non a caso, la passione di Arrigo Sacchi, l'eretico che da 30 anni va dicendo che il risultato non è tutto.

Vincerà? Non ne abbiamo la minima idea. Forse sì, probabilmente no. Vista la forza, la ferocia e l'abitudine della Juve. Siamo certi, però, che un'anomalia così vada studiata e protetta. Perché l'alternativa non è tanto il settimo scudetto consecutivo bianconero (la Juve è il felicissimo, ma unico esempio di club italiano che possa sedersi allo stesso tavolo di Real, Barca e United), ma un calcio sempre più 'lontano'. Povero del sogno alla base della poesia dello sport: che ogni tanto non sia il più ricco (o forte) a vincere.

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12-01-2018 Donald Trump e i tifosi senza se e senza ma
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Donald Trump pare ne abbia fatta un'altra, definendo alcuni Paesi - per lo più africani e centroamericani - 'di merda'. Un felice giro di parole, nulla da dire, soprattutto se pronunciato dal leader di quello che un tempo si definiva 'il mondo libero', perdipiù nello Studio Ovale della Casa Bianca.

Ciò che mi interessa, però, non è tanto soffermarmi sull'ennesima, insopportabile gaffe, ma ragionare su una specie ben definita: il fan italiano di The Donald.

Il Presidente degli Stati Uniti, infatti, gode nel nostro Paese di una vera e propria claque, tifosi sfegatati, senza se e senza ma. Qui, non si tratta di essere pro o contro una politica (Trump ha una politica?!), un'amministrazione e tanto meno un'idea di America. Qui, si tratta di amare visceralmente un uomo 'che gliela fa vedere a tutti'. Uno che se ne frega (dove l'ho già sentita, questa?), che parla come nei peggiori bar di Caracas e incarna il No sempre e comunque ai valori propri della convivenza fra Stati e, in definitiva, fra persone. Perché, allora, piace tanto in Italia?

Perché Trump è il sogno realizzato di chi odia tutto e tutti, di chi pensa che l'unica soluzione ai problemi sia negare i problemi. Di quelli che sento parlare di stranieri e immigrati (tutti 'marocchini', tutti ladri, tutti comunisti, tutte puttane), davanti le nostre scuole, nei nostri bar, nei capannelli, in fila alla cassa del supermercato.  E' il sogno realizzato di chi pensa che sia giusto pagare le tasse e lavorare seriamente, purché non sia lui a farlo. Il lui in questione, infatti, è invariabilmente una vittima del 'sistema', dei politici ladri, dei padroni affamatori e ora ha il diritto di reclamare un Punitore, un giustiziere. Chi, se non lui?  L'uomo più potente del mondo, che si esprime con concetti da quinta elementare. Il Presidente, che riduce il riscaldamento globale, la globalizzazione stessa, ad un'alzata di spalle. Al massimo, a un problema per i nostri bisnipoti e quindi a un bel chi se ne frega (aridaje) via Twitter. Il peone italiano gode, si esalta. Sogna anche qui, finalmente, il potente che parli come lui - in realtà, in questo abbiamo da insegnare all'America - ma che soprattutto neghi i problemi. Evitandoci anche il fastidio di dover pensare. Perché pensare è tedioso, complica la vita, la appesantisce. Il peone pensa che quelli bravi a parlare, quelli che hanno studiato e non si rassegnano alla via più semplice siano in definitiva pericolosi. Certamente noiosi. Vuoi mettere The Donald, il suo mondo semplice, facile, chiaro e limpido...  nessun dubbio, nessun mutamento. Sempre uguale, bianco o nero. Preferibilmente bianco. La claque applaude, la giostra gira, ma sul cavallo c'è solo Lui.

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08-01-2018 Se il buongiorno si vede dal mattino... l'avvio della campagna elettorale
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La lunga corsa è cominciata e, per ora, mancano completamente le sorprese. Tutto come previsto, a cominciare dal lancio delle balle spaziali. Più belle e roboanti sono e più ci piacciono. Sì, perché la sarabanda delle promesse impossibili sarebbe anche abbastanza facile da sgamare, se il pubblico non fosse prontissimo ad accoglierla a braccia e orecchie aperte. Molto facile, infatti, stigmatizzare i partiti e la loro naturale tendenza a promettere l'esagerato, molto meno comodo porre l'accento sulla ricettività, fra i cittadini, delle panzane. Gli stessi, severissimi censori della politica e dei politici esultano come bimbi davanti alla calza della Befana, quando si sente favoleggiare di rivoluzioni. Sempre senza che nessuno risponda alla solita, noiosa, banale domanda: chi paga?

La politica può impunemente giocare a chi la spari più grossa perché sa perfettamente che quasi nessuno alzerà il ditino, per chiedere conto. Anzi, i conti.

Eccitate dall'atmosfera da tutti contro tutti della campagna elettorale, le masse si dividono per bande e si limitano a questo. Da una parte (la propria) il giusto. Dall'altra, il diavolo o almeno il fastidio. Che abolire la Legge Fornero costi 350 miliardi di euro a regime e quasi 24 entro il 2020... ma cosa volete che sia. L'importante è occupare la casellina, piantare la bandierina, sperando che regga fino al 4 marzo. Abolire il canone Rai? Costerebbe ovviamente meno che cancellare la Fornero, ma visto che la Tv di Stato nessuno la vuole privatizzare (vuoi mettere lo sfizio di decidere i direttori, fregandosene del mercato), qualcuno dovrebbe pur metterci i miliardi necessari a tenere in piedi il baraccone. Secondo voi, chi? Silenzio...

Ancora, reddito di cittadinanza, Università gratis per tutti (anche per i ricchi, ovvio, chissene se il livello dei nostri Atenei dovesse continuare a sprofondare) e siamo all'otto gennaio. Non oso immaginare cosa riusciremo a sentire - senza protestare - entro una trentina di giorni. Il problema, insisto, siamo noi cittadini: pronti a tutto, tranne che a guardare in faccia alla realtà. Prontissimi a sbugiardare e insultare domani i nostri eroi di oggi. Del resto, li vogliamo così: abbastanza insulsi, da poter essere mollati appena le chiacchiere di queste settimane si mostreranno per quello che sono: balle. Dei taxi per il risentimento e la faciloneria popolare. Peccato che la tariffa del viaggio sia salatissima e il tassametro non si fermi mai. 

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30-12-2017 Poche parole, su un rappresentante di una categoria in via d'estinzione
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Poche righe, per provare a spiegare cosa sia stato (e sia, ovvio) Marek Hamsik per Napoli e i tifosi azzurri.

Tutto cominciò in una calda notte d'estate del... 1984.

Sì, perché con il goal alla Sampdoria, Hamsik non solo ha superato la Storia, il Mito, sua maestà Diego, ma soprattutto sancito l'eccezionalità del suo rapporto con una città intera.

A nessun altro, infatti, sarebbe stato concesso 'l'affronto', con la stessa naturalezza. Non tanto per la qualità del giocatore - uno dei centrocampisti più belli da vedere ed efficaci sotto porta degli ultimi 10-15 anni - ma per la scelta professionale fatta e ribadita più volte. Ecco perché tutto torna a quella notte d'estate di 33 anni fa. In un'Europa ancora divisa dal muro - Marek sarebbe nato solo tre anni più tardi - e in una città già perdutamente innamorata del messia argentino, sarebbe stato folle immaginare che sarebbe toccato a un mite ragazzo dell'allora Cecoslovacchia prenderne in qualche modo il posto. Con i 116 goal, certo, ma soprattutto con un senso di appartenenza ormai raro, se non unico. Juventus, Milan (quello vero), Chelsea non sono esattamente squadre di seconda fascia e aver sempre detto di 'No', preferendo per dieci, lunghi anni una squadra forte, ma non fortissima, fa di Marek Hamsik il fidanzato ideale di una comunità.

Tanto il Dio che salì gli scalini del San Paolo, in quell'estate leggendaria, era sopra ogni riga immaginabile, tanto lo slovacco è un uomo sotto traccia. Tranquillo, riservato fino all'eccesso. Al punto, che fai ancora fatica a spiegarti come gli sia venuta l'idea della cresta. Unica, ma iconica concessione (con i tatuaggi) all'immagine del calciatore di oggi. Più a suo agio in silenzio  e con gli occhialini da bravo studente, che con le dichiarazioni da capo-popolo, Hamsik è ormai il Napoli. Da una vita. E lo è, nonostante gli incredibili attaccanti transitati dalle sue parti. Favolosi giocatori, come Cavani e Higuain, che hanno legittimamente fatto scelte diverse. Tirando le somme fra qualche anno, coppe e trofei premieranno certamente loro. Noi, però, vogliamo credere che per qualche (raro) giocatore sia ancora più importante  il numero di poster appesi nelle camerette di una città.

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13-12-2017 Il ritorno di Star Wars... parliamone un po'!
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L'attesa è finita e la Forza torna a scorrere in tutto il mondo!

Da oggi, Star Wars 8 sarà nei cinema dei cinque continenti, preceduto da un impressionante lancio commerciale. Si può essere del tutto insensibili al fascino della saga creata da George Lucas, ma è praticamente impossibile non essere inseguiti da immagini, lanci, spot, oggetti, ispirati all'universo di Guerre Stellari.

Detto questo, risponderò subito alla domanda delle domande: com'è 'L'ultimo Jedi', seconda parte della trilogia inaugurata dal 'Risveglio della Forza'? Bello.

Molto bello, se si è fan di Star Wars. Bellissimo, se si è fanatici. Questo, perché nell'ottavo episodio è condensata buona parte della storia di Guerre Stellari, con tantissimi intrecci e ancora più rimandi ai sette film che l'hanno preceduto. E' certamente un rischio, soprattutto nella prima parte, inevitabilmente un po' appesantita dall'incrociarsi delle storie. Anche, però, una gustosissima occasione, per tutti quelli che sono cresciuti con Star Wars e adesso accompagnano i figli a guardare la nuova trilogia. Meglio, fanno finta di accompagnarli, perché i veri fan sono loro e si vede. All'anteprima milanese, ma accadrà così migliaia di volte in tutto il mondo, al buio in sala e alle prime, leggendarie note della colonna sonora di Star Wars, da brivido l'applauso in sala. Attempati signori, serissimi professionisti ancora in abito da lavoro, signore ben vestite, si lasciano andare e decollano con il Millennium Falcon, verso un nuovo viaggio, nella galassia lontana, lontana. E questo, dell''Ultimo Jedi', è un viaggio che vale la pena godersi: ricco, spettacolare, ironico e iconico. Perché non manca quasi nessuno dei personaggi ancora in vita della saga e anche qualcuno che... non c'è più...

E' poi un film intelligente e furbo, perché serve a mettere sempre più al centro i nuovi eroi, la bella e brava Ray su tutti, in vista del futuro. Un pizzico di nostalgia, invece, per il progressivo allontanarsi dei grandi della prima trilogia, ancora protagonisti, ma non più frontman dell'avventura. Rimpianto, infine, per Carrie Fisher, all'ultima prova, prima dell'addio, a cui è inevitabilmente e giustamente dedicato 'L'Ultimo Jedi'. Per chi, come noi, è cresciuto sognando spade laser e salti nell'iperspazio, resterà sempre la nostra principessa, mentre Han Solo ci manca da matti e ritrovare Luke Skywalker è come la pizzata con i compagni di classe. Rughe e capelli in meno, ma non puoi mancare. 

May the force be with you.

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07-12-2017 Il Sud, i luoghi comuni e i raggi di speranza
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Il Sud arranca, il Sud si stacca, il Sud cova rancore sociale e ormai sembra rinunciare al futuro. Questa è l'immagine che emerge dalle ultime statistiche e indagini sul Meridione d'Italia. Un quadro francamente disperante, condito da una fortissima ripresa dell'emigrazione, sia interna, che verso l'estero. Si badi, un'emigrazione non tanto di braccia, ma di cervelli. Il Sud, così, sta perdendo quella che una volta si sarebbe detta la 'classe dirigente', mentre chi un tempo sarebbe partito per Torino o Milano resta, preferendo arrangiarsi (o la pensione del nonno) al rischiare il salto nel buio.

Che facciamo, ci arrendiamo e lanciamo il 'si salvi chi può'?

Manco per idea, ovvio. Il lasciarsi andare ha un suo fascino perverso, come ascoltare le mirabolanti promesse della campagna elettorale o il racconto sempre uguale delle tante cose che non vanno. Ci vuole molto più polso e schiena, per andarsi a cercare soluzioni ed esempi virtuosi. Nonché, la voglia di mettere in conto un bel po' di insulti, da parte di chi è pronto a etichettare e giudicare, evitando scrupolosamente di fare qualcosa di utile nella vita. Il Sud è tutto quello che ho scritto poco sopra, ma anche l'area del Paese - pensate, le cifre sono del Censis, quelli del 'rancore sociale' - in cui le imprese Digital crescono di più. Molto di più, se pensiamo che in Campania, Puglia e Sicilia si assiste a un 'boom' di imprese digitali, con una crescita tripla, rispetto al Piemonte, mentre Lombardia e Veneto sono staccate di 10 punti percentuali. Si badi, non stiamo parlando solo di ecommerce e turismo, ma di software house, aziende di consulenza informatica, elaborazione dati, hosting, portali web, servizi legati alla Rete. Un mondo 4.0 che si espande, con una velocità normalmente sconosciuta al Sud. Le motivazioni possono essere varie, ma avanzo una tesi: lungo le autostrade digitali, non ci sono ritardi storici, non ci sono gap incolmabili, non ci sono autostrade ed aeroporti solo sognati. C'è la capacità del singolo e del team, c'è la creatività, lo studio e l'applicazione.

Dove si parte alla pari, il Sud non sembra più senza speranza e futuro. Riflettiamoci. Riflettano quelli che si ostinano a dipingere il Digitale solo in termini di rischio per il lavoro, dimenticandosi di aggiungere che QUEL lavoro non esiste più.

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04-12-2017 La campagna elettorale al via, sciagura in arrivo?
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Sarà una delle campagne elettorali più lunghe della storia della Repubblica - praticamente cominciata un anno fa - oltre che più dure e pirotecniche. Prepariamoci a scontri al calor bianco, promesse mirabolanti, visioni apocalittiche e millenaristiche. Insomma, il peggio dell'armamentario politico, quando il gioco si fa maledettamente serio e partiti e leader si giocano futuro e, in alcuni casi, sopravvivenza.

Quando si sarà posata la polvere degli scontri, però, cosa resterà? Se non il 5 marzo, dopo una decina di giorni, quando magari si annasperà fra numeri ballerini e improbabili coalizioni di Governo, che senso avrà avuto il bailamme dei due mesi precedenti?! Bisogna essere onesti e a me piace parlar molto chiaro: il quadro che abbiamo davanti è sconfortante. Un tutti contro tutti, frutto di una legge elettorale, che a essere ottimisti era il meglio che potevano sperare in molti, per rimandare al dopo elezioni la domanda fondamentale: chi governerà e come?

Per i prossimi 90 giorni, tutti diranno di voler stravincere, sapendo di non poterlo fare. Tutti a escludere tutto, a cominciare da quello che diventerà un'esigenza comune, a urne chiuse. Parlare con qualcuno e trovare un accordo. Serietà vorrebbe che ciò venisse detto e riconosciuto, ma presupporrebbe uno sforzo di realismo e verità, che i partiti cocciutamente rifiutano. Nessuno escluso. Questa corsa al meno peggio, però, è un rischio che il Paese non dovrebbe e potrebbe permettersi. Chi avrà il coraggio di spezzare questo muro del 'non detto'? Chi avrà il coraggio di tendere una mano, atto di chiarezza politica, che significherebbe al contempo escludere con nettezza altre alleanze, PRIMA di vedere come andrà a finire?

Noi continueremo a chiedere ostinatamente del 'dopo', perché la campagna elettorale è comprensibilmente il momento-clou per chi fa politica, ma fatta così rischia di non cambiare di una virgola la vita dei cittadini. Anzi, di renderli ancora più confusi e disillusi di quanto non lo siano già. Una china pericolosissima, che in troppi hanno imboccato con leggerezza e sufficienza. Si suonava anche sul Titanic, ma non chiedeteci di unirci all'orchestra.

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29-11-2017 Parliamo di calcio e dell'eterna Napoli-Juventus
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Due giorni a Napoli-Juventus, sfida per eccellenza degli ultimi anni. Molto più di una partita di calcio, soprattutto per i tifosi azzurri. Se per il mondo-Juve, infatti, c'è l'abitudine a doversi confrontare con avversari diversi, a seconda dei cicli delle squadre, a Napoli, i bianconeri sono da SEMPRE i più detestati. Più del Milan, più dell'Inter, più di tutti. Difficile capire i perché di questa atavica antipatia, senza passare da... Napoli. In città, dove pure si sprecano gli juventini, si cresce respirando un'aria di perenne rivalsa, nei confronti della squadra-simbolo dell'Italia ricca, potente e industriale. Una rivalsa spesso totalmente irrazionale e non di rado terreno di conquista, per chi voglia cavalcare lo scontento popolare e anche un mai sopito vittimismo. Almeno in un settore, il pallone, la vittoria non è impossibile. Storicamente molto difficile, ma non da escludere.

Si cresce, dunque, così: aspettando la doppia sfida annuale alla Juve, come il giorno dei giorni. Bello, ma pericoloso. Per troppi anni, infatti, al Napoli poteva magari riuscire l'impresa singola, ma era al più uno sfizio, il dispetto del 'popolo' ai 're' della famiglia Agnelli. Poi, arrivò Diego e tutto cambiò.

Ero al San Paolo, quella grigia domenica: settore, tribuna laterale inferiore. Da lì, la partita si vede poco e male, ma ricordo la carezza della parabola impossibile della punizione di Maradona. Scorsi il pallone, che era già in volo, beffardo e sgusciante, come solo il Diez avrebbe mai potuto. L'urlo selvaggio, l'orgasmo collettivo di una città, che non batteva la Juve da una vita. Poi, gli scudetti, la storia che si capovolge, con i bianconeri battuti tante volte, prima dell'inesorabile crollo e dell'onta della Serie C. Nell'era contemporanea, il Napoli è tornato a guardare negli occhi i bianconeri, non grazie al genio irreplicabile, ma a una programmazione - si badi - molto sabauda. Ecco perché, oggi, gli azzurri sono più credibili e meno episodici di allora. Non dipendono dall'uno, ma da un team e un gioco, con pochi eguali.

E' forse giunto il momento, dunque, di lasciar riposare negli album di fotografie quella domenica e la magia di Diego. Aspettarla la Juve, ma senza eccessi, compreso Higuain, che ha rifiutato di essere simbolo di una città, ma non merita certe schifezze che si leggono in questi gironi. Una partita importante, ma una partita. Se il Napoli completerà questa evoluzione, attesa e gioia, ma non parossismo e ansia, nulla sarà impossibile. E tutti ci divertiremo di più, a guardare Napoli-Juventus.

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23-11-2017 Scandali sessuali, rumors e... tattiche. Ma alle vere vittime, chi ci pensa?
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L'addio (momentaneo) di John Lasseter, N.1 e papà della Pixar, nonché dei Disney Studios, in seguito all'inarrestabile ondata emotiva dello scandalo Weinstein, mi ha colpito come un maglio. Provo a spiegare perché: Lasseter ha rappresentato per milioni di persone - anche se moltissimi, in realtà, neppure sanno chi sia - il custode di sogni bellissimi. Emozioni fanciullesche di incredibile pulizia e profondità, sviluppate in film che hanno riformulato il concetto stesso di animazione cinematografica e donato nuova vita a un genere. Vale la pena ricordare che, nelle mani della sola Disney anni '90, i cartoon stavano ripetendo stancamente se stessi. Lasseter è il ragazzo che, totalmente squattrinato, trovò in un certo Steve Jobs l'uomo del destino. Cacciato pochi anni prima da Apple, Jobs investì su di lui e intravide nella Pixar il futuro dei cartoons. Ancora una volta, aveva visto giusto e Lasseter non l'ha mai dimenticato, negli anni del successo, della fama e della gloria. Questa, però, è un'altra storia, mentre oggi ci troviamo di fronte a un quasi-addio, a delle simil-dimissioni, determinate da atteggiamenti borderline, di cui il capo della Pixar si è autoaccusato. In particolare, 'abbracci non graditi' a collaboratori e dipendenti, come riportato dallo stesso Lasseter nel comunicato, con cui si è autosospeso per 6 mesi. Oltre gli abbracci, si intuisce, deve essere avvenuto dell'altro: parole fuori luogo e altre azioni, di cui oggi il genio dell'animazione si pente. Amaramente.

A questo punto, non posso non fare alcune considerazioni: si tratterà di sincero pentimento o di inevitabile mossa tattica, tesa ad anticipare la marea montante in arrivo? Poi, stabiliremo prima o poi un confine, fra comportamenti disdicevoli e vere e proprie molestie? Ancora, come possiamo gestire l'uomo (o la donna) e l'artista? Non sfugge a nessuno, che non sia animato da atteggiamenti messianici, il rischio a cui stiamo andando incontro. Macchiare l'arte e il genio, con le debolezze umane. La lista di grandi del passato, piccolissimi nella vita privata, è sconfinata. Mi chiedo se non si rischi di riscrivere la storia della musica, delle lettere e delle scienze, alla luce di atteggiamenti oggi improponibili e magari ieri comunemente accettati. I maschi devono finirla con certi atteggiamenti, ma deve essere un'evoluzione sociale, non l'effimero effetto di una polemica mondiale.

Siamo abbastanza sicuri di ritrovare John Lasseter al suo posto, infatti, passata la tempesta mediatica. Se così sarà, di tutto avremo parlato, meno che di dignità femminile. E avremo perso tutti.

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20-11-2017 La corsa di Milano all'Ema (scritto, prima del sorteggio...)
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L’Unione Europea voterà oggi, per decidere in quale città si trasferirà l’Agenzia Europea del Farmaco, l’Ema, in uscita da Londra, causa Brexit. Una partita da un miliardo e mezzo di euro d’affari per chi vincerà la sfida. Più l’indotto e il ‘boost’ di immagine, che è pressoché impossibile da quantificare. Milano è messa bene, ma non è la favorita. Tecnicamente parlando, in realtà, sarebbe in netto vantaggio, vantando una sede – il Pirellone – un sistema città e di accoglienza senza pari, ma la candidatura di Bratislava è politicamente molto forte. La Germania spinge la capitale slovacca, per ingraziarsi il blocco dei paesi dell’est dell’Unione. Il meccanismo di voto, poi, particolarmente complicato, prevede una prima scrematura, in cui Milano rischierà moltissimo. Passato il turno, però, molti voti potrebbero invece andare proprio alla candidatura italiana, dal sud Europa, ma non solo. Peserà tanto anche la Francia e non si sa chi dirà di votare il presidente Macron.

Azzardare un esito, dunque, sarebbe esercizio da cartomanti, più che da osservatori, ma resta un punto: Milano, nella corsa all’Ema, ha dimostrato quello che dovrebbe fare SEMPRE l’Italia. Giocare di squadra, come spesso sanno fare gli altri. Soprattutto i nostri amici e alleati del nord Europa. Governo, Regione e Comune hanno lavorato – e bene – insieme, muovendosi in modo coordinato e dando una sensazione di compattezza e chiarezza di idee, a cui onestamente non siamo abituati. Non sappiamo se Milano riuscirà ad avere la meglio, ma sarebbe un segnale importantissimo. Non solo per il nostro Paese, che otterrebbe un grande risultato, premiando uno sforzo comune, ma per tutta Europa. Perché la candidatura di Milano, lo dicono gli esperti, è la migliore. Sarebbe una vittoria del merito e della qualità, un tema senza confini e colori politici.

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17-11-2017 Tavecchio, l'uomo incollato alla poltrona
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Eppur non si muove.

Nonostante tutto, nonostante quello che gli è stato detto e chiesto, dopo la figuraccia planetaria di lunedì sera, Carlo Tavecchio non si schioda dalla poltrona, non si muove di un millimetro. Sordo a qualsiasi critica o invito, il presidente della Figc passeggia per via Allegri (sede  federale) fischiettando. In fin dei conti, cosa volete sia accaduto... Sbattiamo fuori Ventura e via! Anzi, possiamo anche fare gli offesi, perché il Ct più scarso della storia azzurra ha preteso fino all'ultimo euro, che inopinatamente Tavecchio e i suoi gli avevano garantito, all'inizio di questo disastro. Nessun esame di coscienza, nessuna autocritica. Neppure una parola di scuse, ai decine di milioni di italiani indignati, per un fallimento epocale, a cui si è aggiunta la bancarotta morale di ieri. Perché lo spettacolo offerto in Federcalcio non ha nulla a che vedere con la gestione dello sport-business, ma tanto con la dignità delle persone. Con la presa d'atto delle proprie responsabilità e della sfiducia assoluta, decretata da un Paese intero. Restare a dispetto di tutti è un atto di superbia, difficilmente sopportabile in una struttura privata, inaccettabile in una Federazione sportiva, le cui finalità morali e sociali sono evidenti.

A tutti, tranne che al capo.

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15-11-2017 La vergogna senza fine del calcio italiano
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Alla fine, è successo. Il Mondiale ce lo vedremo in Tv, come sempre, ma sarà quello degli altri. Niente riunioni, niente passione, niente bancarelle con le bandiere e le trombette, niente attesa e niente processi. Le mamme dovranno cercarsi un'altra scusa, per organizzare una bella riunione di famiglia, perché ci godremo le imprese dei fenomeni tedeschi o brasiliani, ma il sogno di sovvertire ancora una volta il pronostico ci è stato rubato. Lo sfizio supremo di far vedere al mondo che, per vincere, si deve prima passare da noi. Non sono un ingenuo, sono anni che non rappresentiamo più molto ai massimi livelli, ma solo 18 mesi fa si era sfiorato il colpaccio, contro i Campioni del Mondo. Per tutti e da sempre, affrontare e battere l'Italia è una consacrazione. Era, chiedo scusa. Il gruppo di giocatori e il loro livello – scarsino, in verità – quello era e quello è rimasto.

Una classe dirigente impresentabile, una guida tecnica inadeguata, hanno distrutto il nostro nome e il movimento calcistico azzurro. Ci hanno riportati all'anno zero, inanellando una serie impressionante di errori. Ventura fu una scelta folle e, dai microfoni di Rtl 102.5 e via social, l'ho sempre detto, assumendomene la responsabilità. Mi scuso dell'autocitazione, ma va pur ricordato che un bel pezzo di mondo giornalistico sportivo ha favoleggiato a lungo di un tecnico moderno, se non addirittura rivoluzionario, per aver schierato tre punte, contro formazioni di dopolavoristi e dilettanti. Poi, arrivò la Spagna, cioè la realtà, e il bluff di Ventura fu scoperto. Un tecnico modesto, abituato a palcoscenici di periferia, premiato oltre ogni logica, con la panchina della squadra che ogni due anni ha l'onore e l'onere di rappresentarci tutti. Soprattutto quelli che non sono della parrocchia, che non vivono di pallone, ma che ai Mondiali e agli Europei chiedono un momento da vivere insieme. Un'emozione da condividere.

La caratura umana dei personaggi è venuta fuori impietosamente ieri sera: Ventura è fuggito, lasciando Buffon alle sue lacrime e all'esigenza di chiedere scusa. Non c'è nulla di più sconfortante di un comandante che abbandona per primo il campo di battaglia. Puoi essere scarso e sfortunato, ma non hai il diritto di essere pavido.

Tavecchio, se possibile, ha fatto peggio: si è preso le 48 ore. Quando bastavano 48 secondi e due parole: "Mi dimetto". Ci sono illustri precedenti: Prandelli e Abete al mondale brasiliano del 2014. Evidentemente, questo piccolo presidente di una piccolissima e arcaica federazione ha preferito rifarsi a certi personaggi italici, incapaci in tutto, se non nell'arte del riciclo. Di se stessi.

Ci restano, così, una marea di ricordi e un sacco di rimpianti. Tutto ci saremmo aspettati, però, tranne che trovarci ancora - dopo la notte di tregenda di San Siro - Ventura e Tavecchio.

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09-11-2017 Rtl 102.5, gli ascolti, il successo e le  invidie
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RTL 102.5 si conferma la radio più ascoltata d'Italia. Per distacco. E il distacco cresce... una riflessione, sull'avventura di cui faccio parte da 20 anni.

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RTL 102.5 è la storia di un grande successo, ma soprattutto la storia del successo di donne e uomini perfettamente normali. I numeri dicono molto, moltissimo: le ultime rilevazioni, frutto di un lungo e faticoso lavoro, raccontano di una leadership non solo indiscutibile, ma assoluta. I quasi 8 milioni e mezzo di italiani, che ci scelgono ogni giorno, impongono a noi tutti un senso di responsabilità straordinario. Oltre una gratitudine, che è persino difficile comunicare.

Oggi, però, non voglio parlarvi solo di milioni di ascoltatori, ma anche e soprattutto di un gruppo di donne e uomini, che hanno condiviso un progetto - possiamo parlare di sogno - capace di sovvertire pronostici, luoghi comuni e consolidate abitudini. RTL 102.5 ha sempre pensato in grande, senza sentirsi grande. Ha sempre fatto le cose seriamente, senza prendersi sul serio. RTL 102.5 ha sempre ritenuto di svolgere un servizio pubblico, senza chiedere nulla, se non il rispetto di regole comuni e riconoscibili.

Non è stato sempre facile, non è andata sempre liscia, sappiamo che non sempre lo sarà. Riuscire, lì dove molti non sono riusciti, genera invidie, sospetti, talvolta manovre poco chiare. Non siamo ingenui, ma non vogliamo cedere a questo gioco. Un gioco di potere. Continueremo per la nostra strada, continuando ad alzare l’asticella della sfida. La prima è e sarà sempre con noi stessi: il senso di responsabilità verso i nostri ascoltatori, a cui facevo riferimento poco sopra, è l’unica bussola utilizzabile.

Continueremo ad andare, dove gli altri ci dicono che non si può andare. Continueremo a parlare di ciò di cui gli altri parlano meno. Continueremo a fare ciò che ci piace.

Tutti insieme.

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02-11-2017 Le pensioni, i ragazzi e le balle spaziali
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Un fantasma si aggira per l’Italia. Frequenta soprattutto i salotti televisivi, i talk più inutili e noiosi: il cinquantenne, sedicente opinion maker, che riflette pensosamente sulla necessità di mandare in pensione al più presto l’italiano medio. Del resto, notoriamente facciamo TUTTI lavori usuranti. Lavoriamo SEMPRE in ambienti particolarmente stressanti e pericolosi (in genere la domenica o nei festivi), sotto il sole cocente o esposti alla tormenta. Come si può mai pensare, con una vita media che grazie al cielo si allunga sempre più, di rimandare anche l’approdo alla pensione? Suvvia, non vogliamo andare tutti alle bocce o a guardar cantieri?!

Il cinquantenne pensoso fa una cosa molto semplice: racconta una balla all’italiano medio e cioè che si possa dare sempre di più, senza che nessuno paghi. Per essere più precisi, senza che nessuno venga fregato. Questo nessuno, però, esiste e sono i nostri ragazzi. L’opinion maker, l’ospite da talk show, non ne parla mai (se non per favoleggiare della fuga di massa all’estero, come se andassero lì per la pensione e non per un mercato del lavoro che funzioni sul serio). Non lo fa, perché dovrebbe spiegar loro come continuare a dare, dare, dare sempre ai soliti, senza togliere ai giovani. Grazie a politici senza visione e coraggio e in perenne campagna elettorale, il dibattito è lunare: si parla di qualcosa che non potrà essere garantito, ma che è figo far balenare a una pubblica opinione sballottata fra facili promesse, parole d’ordine vecchie come gli anni ’70 e una patologica tendenza a nascondere la verità.

Ragazzi, ribellattevi! Non per chiedere irrealistici lavori ipergarantiti, ma per il diritto alla gioia del lavoro e della soddisfazione personale. Non fatevi fregare, ascoltate con attenzione i racconti dei vostri amici andati all’estero. Chiedete come funzioni il lavoro in quelle terre e scoprirete la balla colossale che vi stanno raccontando. Non rassegnatevi a fare la carne di cannone per i giochini dei parrucconi. Per questo, però, è necessario un atto di coraggio: smettere di sognare un salto indietro nel tempo e mettersi pesantemente in gioco. Il fantasma da talk show lasciamolo serenamente in televisione, lo ritroveremo fra 10 anni a dire le stesse cose.

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28-10-2017 Milano, il sindaco Sala e la lentezza
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Il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha innescato un dibattito sui tempi della città (e della vita) molto interessante. Potenzialmente ‘rivoluzionario’, per la città più avanzata d’Italia, dei nuovi grattacieli, della movida perenne, del business, affacciata sull’Europa e sul mondo. La Milano che si vanta – con molte ragioni – di essere locomotiva del Paese e faro di un’Italia veloce e smart. E allora? Arriva il sindaco e dice di rallentare, che si sta esagerando, che si è sbagliato?

Come sempre, bisognerebbe respirare un momento e cercare di capire, mentre la discussione si è incentrata quasi esclusivamente su un solo aspetto di questa città ‘che non dorme mai’: gli orari dello shopping. Insomma, le aperture (anche festive…) dei negozi. Come se la Milano di cui scrivevamo poche righe più sopra fosse riassumibile in 50 punti vendita operativi 24 ore su 24 o nei centri commerciali aperti alla domenica. Possibile che in Italia solo le commesse abbiano famiglia?! Possibile che tutto si debba sempre ridurre a uno sterile e noioso scontro su chi lavora e non lavora di domenica? I tempi della città e la velocità sono concetti molto più ampi e – mi sia permesso – molto più alti di un turno festivo.

Significa ragionare su come continuare a far andare come un treno Milano, senza lasciare troppe persone indietro (non sono un illuso, qualcuno resta sempre attardato). Come conciliare la meravigliosa passione meneghina per il lavoro con una vita familiare e sociale degna di questo nome. Significa ragionare di servizi, di mobilità, di proposte culturali e ricreative per chi ha minori disponibilità, di orari delle scuole, etc.

In definitiva, significa parlare di come mantenere la città leader nazionale ed europea, senza perderne il volto umano e solidale. Perdonatemi e con il massimo rispetto, nulla a che vedere con l’ennesima polemica sulle commesse.

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26-10-2017 Torno sul caso Anna Frank, perché non è mai abbastanza
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Sono giorni amari. Il 'caso Anna Frank' è una sconfitta clamorosa, per tutti. All'alba del terzo millennio, ci troviamo qui a dover spiegare, a doverci meravigliare, davanti a ciò che molti di noi davano per scontato, considerandolo parte del sentire di una comunità, prima ancora che di uno Stato. Indiscutibile, fissato nella memoria collettiva. Invece, scopriamo (nuovamente?) che non è così. Che molti non sanno, ignorano o fanno finta di non sapere. Per non parlare di chi minimizza, banalizza, crede che si possa 'scherzare' su tutto. Quindi, anche sulla Shoa. E' una malapianta e ha un nome: ignoranza.

Quella etimologica di chi non sa, per colpa sua o di altri, quella più vasta, che coinvolge chi sa persino, ma non ne coglie il senso. Ed è davanti a queste persone che provo paura e vergogna. Per loro. Lavoro alla radio, amo e uso i Social, insomma sto molto in mezzo alla gente e quello che sento, una specie di rumore di fondo, lontano, ma presente, mi lascia basito. C'è chi ti riduce tutto a 'quattro figurine'. C'è l'immancabile, che si trastulla con la classifica degli orrori, chiedendoti di parlare delle stragi del comunismo. Come se le bestialità di Stalin o Pol Pot possano sfumare l'orrore assoluto dell'Olocausto. L'inimmaginabile che si impossessò di tante menti evolute, in pieno XX secolo. C'è chi prova fastidio, perché con 'i drammi di oggi' non dovremmo perder tempo con chi è morto 80 anni fa. Mostrando di non avere la più pallida idea di cosa sia avvenuto. Si badi: sono quasi tutti adulti e genitori. Allora, mi chiedo e vi chiedo: cosa potranno mai trasferire ai loro figli? Di cosa parleranno con i ragazzi, la sera a casa, oltre che del Grande Fratello Vip? Li sento già, pronti a scagliarsi contro la scuola, i professori, lo Stato, lamentandosi di dover portare la carta igienica, per le classi dei figli. Perché li ho sentiti per anni lamentarsi sempre delle stesse idiozie, davanti la scuola della mia ex-bambina. Mai, dico MAI, ho sentito una riflessione sulla qualità dell'insegnamento, sulla necessità di portare le donne e gli uomini di domani in una dimensione diversa da quella stampata sui libri di testo. Di insegnare loro il valore della Storia, Maestra di vita. Se accettiamo supinamente la superficialità di troppi, diventiamo complici involontari dei subumani da stadio. Se li archiviamo frettolosamente come quattro imbecilli, giriamo la faccia dall'altra parte, accettando una versione di comodo, per cui è sufficiente fare una 'sceneggiata' alla Sinagoga (Cit.), per lavarsi la coscienza e tornare a occuparsi dei goal di Immobile.

La responsabilità dei nostri figli, della loro maturazione, del grado di umanità che sapranno mostrare al mondo, è nostra. Ficchiamocelo bene in testa: non c'è nessuno che possa firmare una giustificazione per la nostra assenza. E la firma falsa si vede lontano un chilometro.

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25-10-2017 Scioperi, sindacati e il solito - inutile - appuntamento del venerdì
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Amo sempre guardare il bicchiere mezzo pieno, quindi potrei essere contento che venerdì (dopodomani) il solito sciopero del trasporto pubblico sia stato ridotto a sole 4 ore. Il Ministero dei Trasporti, infatti, ha giudicato insostenibili, per i cittadini, le 24 ore di agitazione, originariamente proclamate dal sindacato di base Cub, seguito da quelli di base (chi?). Il problema, la parte vuota del bicchiere, resta l’ennesimo, immancabile sciopero del venerdì. Non se ne può più di questo rito del week end, sbattuto in faccia alle persone, con una regolarità imbarazzante. I sindacati sembrano vivere, ormai, in una realtà parallela, in cui gli interessi delle persone normali, di chi ogni santissima mattina si alza e va a lavorare, hanno un ruolo marginale. L’importante è piazzare, alla vigilia del fine settimana (che caso!), un’altra agitazione, per cui nessuno si prenderà la briga di studiare le rivendicazioni e chiedere conto dei risultati. Un rito stanco, vuoto e sostanzialmente inutile. Se non per l’ennesima sigla, che avrà giustificato la sua esistenza, grazie al potere di fermare bus, tram, treni, aerei e metropolitane anche in 4 gatti. Il sindacato, se vuole sopravvivere nell’Italia che verrà, si faccia un severo esame di coscienza e i più grandi limitino questa deriva, pericolosissima soprattutto per loro. I cittadini ringrazierebbero e magari riprenderebbero ad ascoltarli.
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23-10-2017 Un po' di calcio, un po' di sarcasmo...
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L’Inter, dunque, ha vinto 4-0 a Napoli, imponendo una superiorità tecnico-tattica e fisica trascinante. Una prova che ha pesantemente ridimensionato la squadra di Sarri e lanciato i nerazzurri verso il titolo.

No, non sono impazzito. E’ la sarcastica lettura dei commenti delle ultime 36 ore, sulla partita del San Paolo. Un peana di complimeni, titoloni che inneggiano alla moderna e muscolare difesa, organizzata da Luciano Spalletti (uno dannatamente bravo e qui sono serissimo), in grado di imbarazzare i pulcini azzurri. Un darsi di gomito, fra studi televisivi e redazioni di giornali, per sottolineare come il bluff del Napoli sia ormai scoperto: troppo bello per essere vero, perché in Italia per vincere devi essere grosso e con due maroni così, ma non puoi essere bello ed elegante. Non sia mai.

Calmi. La verità, senza filtrare la realtà con l’occhio del tifoso senza se e senza ma, l’ha detta proprio Spalletti: “a volte ci sembrava di giocare contro Goldrake e abbiamo fatto bene quello che potevamo fare”. Aggiungo io, l’Inter avrebbe potuto anche vincere. Questa, però, è un’altra storia, è il fascino del pallone, dove spesso non è il più forte e il più bello a prevalere. E non ho MAI invocato la fortuna, per raccontare la stagione interista. Non si spiega il calcio con la fortuna, almeno non una serie di partite. Chi lo fa, poco ne capisce. Ora, però, sapete che succede? Spalletti non potrà più procedere a fari spenti, non potrà più far finta di non correre per lo scudetto. Ora che ha travolto il Napoli, al primo pareggio saranno guai… il calcio, come la vita, è buffo e adesso è Sarri che può starsene un po’ più tranquillo. La critica ha eletto l’Inter e lui potrà continuare a inseguire il suo folle progetto di vincere, senza far stazionare i pullman sulla linea di porta e provando a essere bello da vedere.

Ps

In tutto questo, arriva la Juve, la Lazio vola spensierata e la Roma è in agguato, ma l’Inter ha vinto a Napoli. Vuoi mettere?

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21-10-2017 Il Nord e lo smog. Una riflessione
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La Cina è vicina. E non è bello. A Torino e Milano, affacciandosi oggi alla finestra si può 'ammirare' lo stesso panorama di una tipica giornata di ordinario, folle smog pechinese. Luce giallognola, aria lattiginosa, un senso di oppressione, di cappa. Di voglia di scappar via... Un disastro, insomma. Non piove da un pezzo, si dirà. Vero. L'alta pressione non sloggia dalla pianura padana, vero pure questo. Signori, però, cerchiamo di non prenderci in giro: da anni parliamo, parliamo, parliamo e alla fine della fiera stiamo sempre qui ad aspettare... che piova. Perché di misure reali e strategiche se ne prendono sempre pochine. Quando va bene. I blocchi alla circolazione, le raccomandazioni: sempre le stesse cose, con variazioni sul tema, non in grado di colpire al cuore il problema. Detto questo e riconosciute le mancanze delle amministrazioni, parliamo un po' dei cittadini. Perché i primi ad aspettare la pioggia (e basta) siamo noi, sempre prontissimi a scagliarci contro l'incapacità del politico di turno, ma inorriditi all'idea di dover usare un po' meno l'auto e un po' di più la metro o l'autobus. Suvvia, davanti a qualsiasi scuola elementare milanese vedo sempre le stesse scene, da vent'anni. La seconda fila è il minimo e la terza ormai non impressiona più nessuno. Mamme e papà trafelatissimi accompagnano i loro pargoli sino in braccio alla maestra, uscendo da lucidissimi Suv, reduci da almeno 500 metri di epico viaggio da casa. L'Area C funziona, ma semplicemente una marea di milanesi paga l'obolo ed entra in centro. Una sensibilità sta crescendo, per carità, il trionfo del bike sharing ne è una prova (anche se qualche imbecille è una tassa da pagare ai nostri tempi), ma i grandi numeri sono stati solo intaccati. Alla prima folata di vento fresco, spariamo un bel 24 gradi in casa, dove non sia mai si debba indossare un maglioncino.
Così, quando dal Comune di Torino invitano a non aprire le finestre o non portare i bimbi al parco, perché l'aria è un disastro, evitiamo almeno la sceneggiata dei capannelli dei rivoluzionari da bar. Colpa di questo, di quello e di quell'altro. Ma mai nostra, che non ho tempo di parlarti, ho l'auto con le 4 frecce e vedo un vigile da lontano.
Ciao, eh.
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18-10-2017 Lettera aperta a mia figlia, sulle molestie e la dignità
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Scrive il papà di (ad) Amelia, il papà di una ragazzina di quasi 12 anni, che fra non tantissimo affronterà il mondo degli studi universitari e poi il lavoro. Scenderà nell'arena della vita e dovrà confrontarsi con la realtà. La vorremmo avanzata, libera, emancipata e rispettosa. Sappiamo tutti che non è sempre così, che la lotta per la dignità della donna è destinata a essere ancora lunga. E che ci chiama tutti a dare il meglio. In questi giorni, si fa un gran parlare di molestie, di violenze inaccettabili, ma anche di compromessi proposti da troppi e accettati da molte. Un punto è e resta cruciale: non mi interessa più di tanto indagare i tempi di una denuncia, esplorare dietrologie e dubbi. Una violenza è una violenza. Approfittare del proprio potere è un atto spregevole e se la potenziale vittima si trasforma per calcolo in 'controparte' il giudizio resta lo stesso. La conquista di una donna può essere un'opera d'arte, il massimo dell'espressione maschile. Ridurla a un mercato o peggio mi farà sempre ribrezzo.
Torniamo, però, a mia figlia. A lei direi (dirò) che la vita è un viaggio, da fare spesso con compagni occasionali. No, non parlo d'amore. Parlo di colleghi, capi, concorrenti, che spesso non potremo scegliere. Potremo, anzi dovremo, scegliere come comportarci con loro. Ad Amelia dirò che il compromesso con la propria dignità non esiste. E' una resa alla prepotenza, se non alla brutalità. Inconcepibile e inaccettabile, sempre e comunque. Finché potrò, sarò la spalla, ma non mi faccio illusioni. So benissimo che prima o poi potrebbe trovarsi sola, davanti alla proposta, la mezza parola, l'allusione, la mano irrispettosa. In quel momento, faremo i conti con anni di sforzi e tentativi di educazione (sempre con le migliori intenzioni, ma altrettanto perfettibili). Oggi penso: avrò fatto il possibile, le avrò dato gli strumenti per riconoscere, reagire, chiedere aiuto? Oggi non posso saperlo, ma ho il dovere di parlarne, di non nascondere le pieghe, in cui si annidano i compromessi peggiori, quelli formalmente accettabili, ma che ti distruggono dentro. Perché non mi interessa il 'così fan tutti', ma la serenità di mia figlia. La serenità di saper rinunciare all'istante - se necessario - a una realtà malsana, per poter scegliere uomini e donne degni. Lasciamo stare i santi, non parlo di loro, parlo di persone che al mattino possano mettersi allo specchio e guardarsi, senza vergogna. I compagni, perfettibili, ma per bene, che auguro a mia figlia.
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16-10-2017 La Storia, la memoria. Noi.
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Oggi, voglio rivolgere un pensiero ai nostri ragazzi. Quelli del '99... 1899 e 1999.
I diciottenni dei nostri giorni e i diciottenni di 100 anni fa. Perché mi ha profondamente colpito l'idea che in questi giorni i neo-maggiorenni stiano maturando il bonus-cultura da 500 euro, mentre un secolo fa i loro coetanei ricevettero in dono un moschetto, con cui difendere la Patria, sull'estrema linea del Piave. Esattamente 100 anni fa (martedì della prossima settimana, per essere precisi), la tragedia di Caporetto, la disfatta militare assurta a sinonimo di quanto di peggio possa capitare a un singolo e a una comunità. Sgombero il campo da ogni equivoco: considero una grande fortuna e una straordinaria conquista della nostra società aver sostituito il moschetto con i 500 euro per libri o musica. Il bonus potrà piacere o meno, ma se ben utilizzato può essere una porta d'ingresso in mondi fantastici, quelli della fantasia, della cultura, dell'arricchimento personale. Se questo oggi è possibile, lo si deve anche ai ragazzi di quell'altro e ben più epico '99. Ecco perché ne scrivo, ecco perché ne voglio parlare in radio. Ai ragazzi di oggi, ai nostri figli, la Storia va spiegata, illustrata con passione e dedizione. Non può morire in un libro polveroso, in frasi sempre uguali. Ai diciottenni di oggi, ma anche un po' più giovani e più vecchi, of course, bisogna parlare di quello che accadde, di come una Nazione guardò il baratro e seppe trovare risorse morali e materiali, su cui nessuno avrebbe scommesso un pound o un franco (riferimento voluto agli alleati franco-britannici di allora). Qualcuno si potrà chiedere legittimamente perché farlo, che possa mai interessare ai ragazzi dell'era Digital la rotta di Caporetto, la difesa e il riscatto sul Piave. La Storia è memoria, la Storia ti dice chi tu sia, anche perché oggi ai maggiorenni si possa dare il bonus (non cambia se ne siamo ferocemente contrari!). Dobbiamo spiegargli quale meraviglioso cammino la Repubblica abbia saputo compiere, nonostante tutto, dopo l'ulteriore tragedia della Seconda Guerra Mondiale.
Molto cominciò lì, in quel lontano conflitto dei bisnonni dei nostri ragazzi. I semi dell'incubo dei totalitarismi degli anni '20 e '30 furono piantati in quelle trincee maledette, sul fronte occidentale, negli immensi spazi russi e anche sul Carso. Così come il seme di un sentimento nazionale (sì, esiste e non solo per il calcio), germogliò quando si trattò di fermare i 'crucchi', ormai lanciati verso Milano. Ragazzi, cercate in rete, chiedete ai Prof, fatevi consigliare un libro. Erano vostri coetanei, vivevano un altro spazio e un altro tempo, ma avevano sogni piccoli e grandi, come voi. Meritano di essere ricordati, non nelle agiografiche illustrazioni dei libri di testo, ma come carne viva, come i nonni a cui dobbiamo la possibilità oggi di azzuffarci sull'alternanza scuola-lavoro... scoprirete un mondo diversissimo eppure con sorprendenti punti di contatto. Vizi italici di allora, che sono sopravvissuti ai decenni e a due guerre. Vigliaccherie ed eroismi, imboscati e coraggiosi, incapaci e fenomeni, codardi ed eroi ai limiti della pazzia, uomini per tutte le stagioni (Badoglio) e uomini tutti d'un pezzo. Ancora, Caporetto, il Tagliamento, il Piave, il Grappa, Vittorio Veneto, Cadorna e Diaz, fanti, troppi fanti dimenticati. Erano i nonni. Erano italiani.
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13-10-2017 L'alternanza scuola-lavoro, una grande opportunità!
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E' come se continuassi a scrivere il pezzo di due giorni fa... neppure il tempo di finire di leggere i commenti sul lavorare di domenica e nei festivi e scoppia il finimondo sull'alternanza scuola-lavoro. Uno strumento purtroppo ancora rivoluzionario, nell'incartapecorito sistema formativo italiano. Perfettibile, incompleto e imperfetto quanto si vuole, ma vitale per cominciare a far entrare i nostri ragazzi in contatto con il mondo del lavoro. Oggi, invece, migliaia di studenti hanno idealmente caricato a testa bassa il progetto, additandolo come larvata forma di sfruttamento, se non peggio. Da qualche parte, è persino rimbalzato il termine 'schiavismo'. A onor del vero, qualche illuminato ha anche letteralmente caricato un McDonald's, una sede di Edison o una sezione di partito, perché menare un po' le mani viene naturale a chi ha pochissima materia cerebrale. Non è di questi soggetti, però, che voglio occuparmi, ma della stragrande maggioranza di chi è andato pacificamente in strada a urlare per il 'diritto allo studio'. Ragazzi, spalancate le orecchie e ascoltate chi vi vuole bene sul serio, non date retta alle mummie e diffidate dei profeti di sventura. Soprattutto, chiedetevi che lavoro abbiano mai fatto (ammesso che lavorino e nel caso di non pochi sindacalisti il dubbio è legittimo) questi signori, per cui tutto dovrebbe essere destinato a restare fermo, immutabile e possibilmente grigio. Vi piaccia o no, vi è stato dato in sorte di vivere in un modo altamente competitivo, dove le aziende vi osserveranno e sceglieranno, guardando con scrupolosa attenzione le 'soft skills', le vostre attitudini. La voglia di imparare, l'ambizione mediata dall'umiltà, lo spirito di iniziativa, la disponibilità al sacrificio, il desiderio di affermarsi, di migliorare costantemente. Dove credete di imparare tutto questo, nei cortei fuori dal tempo e dallo spazio? Correte all'alternanza scuola-lavoro (l'avessi potuta sperimentare io,futuro giornalista)! Pretendete, però, che sia una cosa seria e se qualche imbecille vi parcheggia in un angolo di un ufficio, fate casino, chiamate preside e genitori, andatevene. Sfilate e protestate, ma non per chiedere il sempre uguale. Ne va della VOSTRA vita e del VOSTRO futuro. Non è tempo di giocare al piccolo sindacalista.
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